stronzi per natura
Ho sempre amato la matematica, la precisione dei numeri mi da certezze, ma dal momento in cui misi piede in quell' aula il professore decise che mi avrebbe bocciata, forse perchè venivo da un liceo classico, forse perchè ero nuova. Più il tempo passava e più la sua antipatia nei miei confronti si faceva palese, mentre io da parte mia non potevo fare a meno di ammirarlo; non per chissà quali capacità oratorie o doti da insegnante. Lo ammiravo per la vita che ha vissuto, si fermava sempre a raccontarci qualche aneddoto, così, come gli venivano in mente, erano sempre storie che lo vedevano protagonista di qualche grande impresa, e anche quando grande non era, lui interrompeva la narrazione per sottolineare in qualche modo la sua destrezza nel gestire le situazioni.
Eppure, nonostante tutto ciò che ha vissuto, nonostante tutto, rimane uno stronzo, questa è la prova definitiva che se uno nasce stronzo, stronzo rimane. Anche quando conosce l'amore, anche quando ha paura, anche quando è idolatrato, come forma di difesa personale, una forma di ribellione nei confronti della vita che gli altri si ostinano a vivere e che lui condanna per noia, monotonia, banalità, superficialità… le stesse cose che infine condannerebbe della sua, se solo le vedesse.
E non serve essere , come lui, uno stronzo, per comprendere questo meccanismo, freud stesso ci racconta che le persone che sogniamo non rappresentano se stesse ma sono pezzetti di noi.
È ciò che vediamo di noi stessi, delle nostre mancanze, negli altri, è quello che fa la differenza, è quello che ti fa odiare, e che ti fa innamorare.
Sono stata, per un arco di tempo relativamente lungo, io stessa, una stronza, non per capriccio o per un sentimento di superiorità, no, era odio puro il mio, odio verso tutte quelle persone, che intorno a me, vivevano come se fosse semplice, come se tutto fosse automatico, mentre io arrancavo nella strada dal letto al cesso, da casa alla fermata, e dal bus a scuola, e dalla porta, lungo le scale, i corridoi infiniti e poi le aule dove pativo l'immobilità di un banco accanto alla finestra, in ultima fila, il mio posto, l'unico posto in cui riuscivo a sopportare la lentezza dei secondi, quando, inesorabili, mi scorrevano sulla pelle...
La sensazione di dover fare qualcosa era diventata come un sottofondo continuo ai miei pensieri che pure mi scorrevano nella mente, scavando buchi sempre più profondi, dove le speranze andavano ad infilarsi, diventando per me, sempre più difficili da evocare.
E ora sono qui, questo foglio bianco davanti a me, questi esercizi che conosco a memoria e il suo sguardo perennemente addosso, in attesa del minimo movimento sbagliato per invalidarmi il compito.
Non mi dispiacerebbe alzare il culo e andarmene, uscire, fumare una sigaretta, fermarmi, ascoltare il respiro che entra e esce dal mio petto, rallentare i battiti e smettere di rimuginare su ciò che le persone potrebbero dire o pensare.
Comunque, fatto sta, che alla fine, mi bocciò.
Giulia Brigda